Screenshot del messaggio WhatsApp: piena prova nel giudizio civile

Il sistema di messaggistica tramite WhatsApp è oramai parte della nostra quotidianità, nella vita privata e non solo, diventando anche uno strumento di  lavoro essenziale. Se da un lato ha facilitato e velocizzato le nostre comunicazioni, dall’altro lato, un messaggio “sbagliato” o “di troppo” potrebbe costare caro.

In una recentissima ordinanza emessa dalla Suprema Corte di Cassazione (Cfr. Ord. n. 1254/2025, pubbl. 18.01.2025) la conversazione WhatsApp, intrattenuta tra il debitore ed il creditore, ha contribuito – in via non esclusiva, per come si preciserà di seguito – alla prova dell’esistenza vuoi dell’obbligazione vuoi del suo inadempimento.

Esaminiamo il caso.

Al termine del giudizio di primo grado, avente ad oggetto l’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto da una società quale corrispettivo per la fornitura ed installazione di serramenti, il Tribunale adito accoglieva l’opposizione e revocava l’ingiunzione in quanto non riteneva provato il credito azionato. Al contrario, la Corte di Appello confermava il decreto ingiuntivo: proprio in un messaggio WhatsApp l’ingiunto confermava la debenza dell’importo indicato nella fattura da cui scaturì il decreto ingiuntivo.

A seguito del ricorso promosso dal debitore, la questione giungeva innanzi alla Suprema Corte che riconosceva legittimo l’iter seguito dalla Corte di Appello nel ritenere che la prova della pattuizione del quantum preteso dal creditore in sede monitoria fosse stata desunta mediante testimonianza, come corroborata dal contenuto conforme del WhatsApp inviato dal committente.

La recentissima ordinanza testualmente riporta: “quanto alla contestazione del messaggio WhatsApp prodotto, si rileva che i messaggi “WhatsApp” e gli “sms” conservati nella memoria di un telefono cellulare sono utilizzabili quale prova documentale e, dunque, possono essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica, con la conseguente piena utilizzabilità dei messaggi estrapolati da una “chat” di “WhatsApp” mediante copia dei relativi “screenshot”, tenuto conto del riscontro della provenienza e attendibilità degli stessi” (Cass. Sez. U., Sentenza n. 11197 del 27/04/2023).

Dunque, veniva espressamente riconosciuta la validità ai fini probatori della (ri)produzione di chat WhatsApp e dei relativi screenshot.

Inoltre, prosegue la Suprema Corte precisando che: “in tema di efficacia probatoria dei documenti informatici, il messaggio di posta elettronica (c.d. e-mail) – e così i messaggi WhatsApp – costituisce un documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19622 del 16/07/2024; Sez. 2, Sentenza n. 11584 del 30/04/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 30186 del 27/10/2021; Sez. 6-2, Ordinanza n. 11606 del 14/05/2018). E ciò pur non avendo l’efficacia della scrittura privata prevista dall’art. 2702 c.c. (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 22012 del 24/07/2023)”.

Ciò premesso, alla stregua delle statuizioni della Suprema Corte, potranno distinguersi due casi:

  • il primo, qualora la produzione in giudizio dei messaggi WhatsApp non venisse contestata dalla parte avversaria, le chat farebbero piena prova dei fatti in essi riprodotti;
  • il secondo, invece, laddove la controparte ne contestasse la conformità ai fatti o cose rappresentate, sarà il Giudicante a dover valutare se detta contestazione sia effettivamente fondata o, al contrario, pretestuosa e/o generica (a titolo esemplificativo, non sarebbe efficace la contestazione dell’utilizzabilità processuale del documento in sé, in luogo dell’eccezione della natura artefatta del relativo contenuto).

Tuttavia, pare necessario formulare un’osservazione prima di concludere riconoscendo lo screenshot di un messaggio come “piena prova”. Difatti, nell’ordinanza in esame, la Cassazione ha altresì precisato che: il messaggio utilizzato non ha avuto una rilevanza decisiva al fine di ritenere provato il quantum della fornitura e della posa in opera dei serramenti (che, contrariamente all’assunto del ricorrente, non è stato basato sul riconoscimento di debito desumibile da tale messaggio), bensì – ben più limitatamente – tale “documento” ha costituito un elemento indiziario utilizzato per suffragare l’attendibilità della testimonianza resa”. Precisazione, quest’ultima, non irrilevante.

Si può osservare come la Suprema Corte, dapprima, abbia riconosciuto al messaggio WhatsApp il valore di piena prova ma, poi, abbia deciso di concludere minimizzandone la portata probatoria e precisando che, nel caso in esame, lo screenshot sia stato valutato solo come un elemento indiziario teso a suffragare una testimonianza già assunta.

Si ha dunque motivo di ritenere che siffatta recentissima pronuncia, nel fare accenno al valore indiziario di suddetto screenshot, potrebbe dare adito a distinte interpretazioni sul valore probatorio della messaggistica – ad esempio – a seconda che sia isolatamente prodotta in giudizio o che, invero, sia concorrente con altre prove.

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